Chi non s’intende di economia non capisce affatto la storia
Ezra Pound
Le terribili immagini e i preoccupanti commenti che stanno occupando le pagine dei giornali quotidiani di tutto il mondo, e che con ogni probabilità ci accompagneranno ancora nei prossimi giorni, ci rivelano ancora una volta quanto sia fragile la pace tra i popoli e quanto al contrario lo spettro della guerra sia sempre pronto a presentificarsi.
Non è questa la sede per ripercorrere la storia di un conflitto tra due Stati che potrebbe risalire nel tempo almeno di 1000 anni, evidenziando dettagli ed implicazioni geopolitiche degne di complicare le analisi anche agli storici più raffinati, ma è certamente questa l’occasione per mettere nuovamente in luce che questo c.d. “rischio 2022”, che ha preso le mosse proprio nel conflitto a fuoco tra Russia e Ucraina, in verità non del tutto così poi inaspettato, è soltanto una ulteriore riprova di come mai nella storia un concetto si sia mostrato così complesso e confuso quanto il concetto di globalizzazione, beffardo e benevolo al tempo stesso, capace di favorire la soluzione di molti mali senza però rinunciare ad essere comunque la fucina di una terribile e complessa macchina di inestricabili conflitti.
Un concetto/pensiero entrato nel lessico comune verso la fine degli anni Ottanta poco prima della conclusione della guerra fredda, e che da quel momento in poi è stato quasi sempre ritenuto responsabile dei grandi eventi degli ultimi trent’anni, venendone conseguentemente dichiarato morto.
Ad esempio, una prima volta con gli attacchi terroristici dell’Undici settembre 2001 a New York e Washington quando si affermò che l’erosione della fiducia tra l’occidente e il mondo arabo, l’aumento delle misure di sicurezza e il disordine geopolitico, avrebbero ridotto l’economia globale.
La seconda volta, con il collasso dei negoziati di Doha dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 2006, quando si sostenne che, in assenza di accordi su un quadro globale di regole, il commercio mondiale avrebbe rallentato, o si sarebbe quantomeno chiuso e contratto.
Una terza volta, con la crisi finanziaria del 2007-2008, allorquando il calo delle esportazioni, la diminuzione dei prestiti internazionali e l’attacco al modello anglosassone di capitalismo, sono stati citati ovunque come prova di una deglobalizzazione.
Per non parlare più di recente della fine di una globalizzazione a causa dell’innalzarsi dei tassi di interesse americani, del rallentamento della crescita cinese, dell’automazione della produzione e dall’avanzare di tecnologie della manifattura. Se ciò non è accaduto fino ad ora sarà davvero complicato pensare che accada in futuro.
Anzi, c’è da credere che la globalizzazione abbia con ogni probabilità alle sue porte una nuova età dell’oro e che proprio per questa ragione si invera senza soluzioni di continuità come la costante causa di un nuovo disegno geopolitico mondiale e dei suoi preminenti spazi di influenza.
Un mundus furiosus, un sofisticato congegno fatto di sangue e soldi che senza mai rinunciare all’opportunità di coagulare ingenti masse di danaro ad usum delphini sarà ovunque in stretta relazione con l’altro da sé attraverso, però, patti fluidi che all’occorrenza dovranno essere impunemente caducati in nome di quella insuperata formula smithiana per cui la difesa, se necessario, è sempre più importante della ricchezza che in un certo qual modo equivale a dire, secondo la formula clausewitziana, che la guerra resta pur sempre la prosecuzione della politica con altri mezzi.
A (s)conforto di quanto appena detto, basti per qualche secondo pensare che secondo i dati dell’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED), una parte sostanziale del pianeta è ancora sommersa da una qualche forma di conflitto che origina da questa sottesa logica.
Sono 70 i Paesi in guerra per un totale di 869 guerre e guerriglie (milizie-guerriglieri e gruppi terroristi-separatisti-anarchici). In particolare: Africa, 31 Stati e 291 guerre e guerriglie; Asia, 16 Stati e 194 guerre e guerriglie; Medio Oriente, 7 Stati e 266 guerre e guerriglie; Europa, 9 Stati e 83 guerre e guerriglie; Americhe, 7 Stati e 35 tra cartelli della droga, guerre e guerriglie.
Inoltre, ci sono 47 territori che cercano l’indipendenza, in modo più o meno pacifico, in particolare: 20 in Asia; 10 in Africa; 13 in Europa; 2 in Medio Oriente; 2 in Oceania. Dinanzi a queste sconfitte umanitarie, si afferma in un modo eticamente corretto, ma altrettanto retorico, che tutte le guerre sono uguali e che verso tutte occorre mostrare un netto disprezzo.
Un atteggiamento più sincero richiederebbe, però, anche il coraggio di ammettere che in fondo in fondo la risposta non può essere così tranchant.
La guerra della Russia contro l’Ucraina – che forse sarebbe più accorto qualificare come la guerra di Putin contro l’Ucraina – ha un impatto totalmente diverso rispetto ai molti altri pur deprecabili massacri umani consumati in diverse parti del mondo.
Ciò, non solo per un più immediato coinvolgimento empatico che la nostra sensibilità genera per il popolo ucraino (e per quello russo) ma soprattutto perché certifica quanto la categoria del nemico fuor d’eclissi, sia ancora così consustanziale a quello del politico a maggior ragione in un mondo come quello attuale apparentemente più interessato ai flussi e alle sfere di influenze che ai confini e al territorio.
Un modo del genere, infatti, nel mentre contribuisce ad accelerare lo scambio di merci e persone determina di pari passo il venire meno della distanza, dell’idea stessa di prossimità, cioè a dire la stessa possibilità dell’ospitalità più sincera quale fonte generatrice di ogni più autentica amicizia.
All’interno di questo solco globalizzante anche il nemico, quindi, si è annacquato perché lungi dal lasciarsi individuare secondo i rigidi paradigmi dicotomici individuati dalla scienza politica si è fatto concetto ambulante come tale suscettibile d’esser avocato alla bisogna e dalla più nuda occasionalità.
Probabilmente nasconde molto più di quanto non riveli considerato che non è ancora del tutto chiaro se l’Ucraina sia il fine o il mezzo di Putin, ma non è un caso, tuttavia, che questo violento attacco putiniano, che sta facendo peraltro saltare come birilli un negoziato dopo l’altro, stia assumendo questa tanto deprecabile quanto ingiustificata postura offensiva nei confronti dell’Ucraina.
Forse per capirci qualcosa in più non sarebbe così peregrino (ri)prendere in consegna, per trarne le debite decostruzioni, quel peculiare punto di osservazione geopolitico che negli ultimi anni avevamo fiduciosamente caldeggiato, vale a dire la convintissima idea che in un mondo globale e iperconnesso nessuno è più disposto, per la molteplicità delle implicazioni economiche ivi sottese, a sporgersi fino al bordo del precipizio da cui s’intravede l’orrido della guerra.
Ebbene, ci sbagliavamo.
Difatti, se fino a ieri nessuno si è reso conto che di quell’Europa sogno di una potenza gentile capace di diffondere libertà e tolleranza non era già da tempo rimasto granché, salvo in pochissimi, e che le ferite delle guerre mondiali non sono state mai davvero ricucite, oggi, dopo questo feroce attacco, abbiamo senz’altro il dovere di risemantizzare il punto di osservazione anzidetto ricordando a noi stessi, adesso più che mai, che le relazioni di forza tra spazi geografici, anche in un mondo di flussi, iperconnesso e globalizzato, si gestiscono sulla mappa del Risiko non meno di quanto si possano gestire nel Matrix dell’infrastruttura fisica e digitale.
Ed è proprio questo a nostro avviso, di là delle validissime e meticolose analisi che si leggono un po’ dappertutto, il passaggio chiave che in particolare da un vertice ottico più strettamente europeo bisognerebbe tenere in debito conto e preoccupazione dinanzi ai retorici annacquamenti sentimentali, ai pacifismi di bandiera psicologicamente riparatori, e agli insulsi tentativi di destoricizzare il passato che con così tanta frequenza hanno pure accompagnato il sequel narrativo delle due guerre mondiali fino all’esilarante punto di ritenere incompatibili la strada della democrazia con quella della potenza.
Certo, il bla-bla-bla è molto meglio del bang-bang diceva un uomo della statura di Churchill lasciando a noi in eredità una postura politica, un senso alto e nobile della diplomazia in tempo di crisi, tale da non cedere mai a nessuna forma di dispotismo, di risentimento di bandiera o sconforto di sorta.
È questo ancora oggi resta l’orizzonte sempre valido su cui depone lo sguardo ogni statista che si rispetti anche quando si tratta di assistere obtorto collo ad una drammatica guerra come in parte sta toccando al mondo, e a noi europei in particolare, in questi giorni.
Però intendiamoci, Churchill sapeva bene che il bla-bla-bla fosse da prediligere al bang-bang a patto che la pace non la siglasse il sopruso, e a patto e condizione che oltre i limiti di ogni più sedule ragionevolezza, ad un certo momento, ognuno scegliesse da che parte voler stare, con forza ed onore.
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