Uno studio del JRC evidenzia come l’applicazione delle strategie per l’ambiente e il clima nella prossima politica agricola comunitaria potrebbe generare effetti significativi sui mercati internazionali e sul reddito degli agricoltori. Si evidenzia il rischio che gli impatti ambientali siano semplicemente delocalizzati nei paesi terzi lasciando negli Stati membri una scia di aumento dei prezzi delle derrate alimentari e diminuzione del reddito degli agricoltori.
Al termine della II guerra mondiale, l’agricoltura europea è stata chiamata al compito strategico di sfamare un intero continente, che usciva stremato e martoriato dagli eventi bellici. Questo obiettivo è stato colto nell’arco di un ventennio e ha consentito, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, di conquistare la sicurezza alimentare, della quale noi cittadini europei per la maggior parte continuiamo a godere ai nostri giorni. Un traguardo eccezionale, reso possibile dal lavoro dei contadini e dallo sviluppo scientifico e tecnologico che ha messo a disposizione dell’agricoltura mezzi sempre più efficaci per migliorare le rese delle colture, difenderle da patogeni e parassiti, incrementare la produzione di zuccheri, proteine, vitamine.
A partire dagli anni ’90 questo percorso ha evidenziato il suo principale limite nell’impatto ambientale prodotto dai sistemi produttivi agricoli intensivi, ai quali più recentemente si sono aggiunte considerazioni sociali e collegamenti con il tema drammatico dei cambiamenti climatici. Negli ultimi 30 anni, la Politica Agricola Comune ha risposto a queste nuove criticità accrescendo l’importanza data al miglioramento delle prestazioni ambientali e climatiche dei processi produttivi e questa tendenza è ulteriormente rafforzata nella nuova PAC, che prenderà il via a gennaio 2023, che recepisce gli orientamenti delle recenti strategie proposte dalla Commissione europea: Green Deal, Farm to fork, EU Biodiversity strategy 2030.
Nell’estate 2021 il Joint Research Centre − JRC − di Siviglia (Spagna), l’organizzazione comunitaria che realizza studi a supporto delle attività di predisposizione, sviluppo, implementazione e monitoraggio delle politiche comunitarie, ha pubblicato un rapporto dal titolo Modelling environmental and climate ambition in the agricultural sector with the CAPRI model allo scopo di valutare gli impatti determinati dalla implementazione delle strategie per la riduzione degli impatti ambientali e la mitigazione del cambiamento climatico nella futura PAC[1].
Lo studio stima gli effetti all’anno 2030 conseguenti alla integrazione nella PAC di quattro principali obiettivi definiti dalle strategie ambientali:
- riduzione del rischio e dell’uso di pesticidi;
- riduzione del surplus di nutrienti;
- aumento di superficie agricola coltivata con metodo biologico;
- aumento delle superfici agricole destinate al mantenimento di paesaggi ad alta diversità.
Il modello è stato calibrato su tre scenari di riferimento: il mantenimento dello status quo, che presuppone nessun cambiamento nella PAC rispetto al periodo 2014-2020 [ora 2014-2022], e l’integrazione degli obiettivi ambientali con due livelli di intensità: con e senza l’uso dei fondi Next Generazione UE.
Lo scenario delineato dal rapporto prevede che questa PAC, resa più green, determinerà sicuramente risultati ambientali positivi; e questo nonostante le stime fornite siano probabilmente pessimistiche rispetto ai risultati effettivamente conseguibili in quanto il modello non considera le sinergie che potrebbero attivarsi con altri programmi e politiche comunitarie.
Tali risultati ambientali positivi si verificherebbero già a partire dalla situazione meno vincolante, corrispondente al mantenimento dello staus quo, con effetti significativi ad esempio in termini di riduzione delle emissioni di gas serra e di ammoniaca, nonché dal punto di vista della percolazione di nutrienti nelle acque profonde e l’inquinamento di quelle superficiali.
Viene tuttavia riportato come a fronte del beneficio ambientale atteso, l’applicazione delle strategie ambientali e climatiche determinerà anche un calo della produzione agricola comunitaria nonché variazioni dei prezzi e del reddito per determinati prodotti agricoli, con un impatto complessivo negativo sulla redditività del comparto agricolo.
In particolare, si prevedono diminuzioni delle scorte di cereali e semi oleosi comprese tra il 12 e il 15% come effetto combinato della diminuzione delle superfici coltivate (-4%) e delle rese unitarie (-11%). Percentuali di diminuzione analoghe si rilevano anche per quanto riguarda le scorte di carni bovine, suine e avicole, condizionate dall’esigenza di ridurre la produzione di deiezioni e, in generale, l’impatto ambientale degli allevamenti zootecnici.
Queste variazioni delle scorte si ripercuoteranno necessariamente sugli scambi internazionali determinando minori esportazioni dall’UE verso i paesi terzi e aumento dell’import. Ad esempio, lo studio prevede un aumento significativo delle importazioni di semi oleosi, spinte da una sostituzione della produzione interna con prodotto di importazione, così come di carne bovina e, soprattutto, di carne avicola proveniente da paesi come Brasile e Tailandia, destinato a triplicare rispetto ai valori attuali.
Evidentemente, la sostituzione dei prodotti interni con quelli importati avrà anche l’effetto non di annullare ma semplicemente di trasferire l’impatto ambientale nei paesi di provenienza delle merci, con l’aggiunta delle emissioni di gas climalteranti generate dalla movimentazione delle commodities.
Le modificazioni degli scambi commerciali avranno un effetto anche sui prezzi delle merci, con aumenti particolarmente rilevanti attesi per le carni suine (oltre 40%) e bovine (quasi 25%) e anche per i cereali (circa 7,5%) e i semi oleosi (oltre 10%). Tuttavia, lo studio evidenzia anche come gli aumenti di prezzi alla produzione non contribuirebbero a migliorare i redditi degli agricoltori che, al contrario, sono previsti generalmente in calo, a seguito della contemporanea diminuzione delle rese e della diminuzione soltanto minima dei costi di produzione, gravati dalla necessità di rispettare regole ambientali sempre più stringenti.
Il reddito totale del settore dei cereali è previsto in forte diminuzione (26%); infatti, nonostante l’aumento dei prezzi alla produzione (8,2%) e la diminuzione dei costi di produzione (-1,6% dei costi variabili) compensino parzialmente il calo del reddito, questi effetti non sarebbero sufficienti a controbilanciare il forte calo dei ricavi totali (-8,6%) determinato dalla diminuzione attesa dell’11% delle rese produttive. Analogamente, si rilevano per i semi oleosi previsioni di diminuzione dei ricavi superiori alla diminuzione dei costi di produzione mentre per quanto riguarda l’ortofrutta l’aumento dei prezzi del 15% potrebbe quasi compensare la diminuzione delle rese, ma l’aumento dei costi determinerebbe comunque una perdita di reddito complessivo pari a circa il 5%.
Gli unici settori che sembra possano beneficiare della nuova politica agricola sono quelli delle carni bovine, suine e avicole anche se lo studio riporta come questi dati siano fortemente influenzati dal valore iniziale molto basso del reddito calcolato nell’anno di baseline.
Nel 1990, giovane laureato in licenza dal servizio militare, assistetti a Bologna alla presentazione del volume “Agricoltura e Ambiente” edito dall’Accademia Nazionale di Agricoltura. Ospite illustre dell’evento era il collega e senatore della Repubblica Giuseppe Medici (classe 1907) che pronunciò una frase che allora mi sembrò molto azzeccata: «oggi possiamo concederci il lusso di dedicarci all’ambiente perché non abbiamo più fame». A oltre 30 anni di distanza mi viene da dire che questa frase non sia più così attuale, per due motivi. Il primo è che l’attenzione per l’ambiente non è più un lusso ma una necessità e il secondo è che la fame, purtroppo, stanti le previsioni di crescita demografica a livello globale è un tema destinato a restare di grande attualità. La politica agricola comunitaria, benché confinata nei rassicuranti confini dell’Unione, non potrà non tenere conto dello sforzo globale necessario per fornire cibo, nel 2030, a 8,5 miliardi di persone[2]. Davanti a questa prospettiva, siamo davvero consapevoli dei potenziali effetti di politiche agricole che riducono la produzione alimentare?
[1] Il modello CAPRI – Common Agricultural Policy Regionalised Impact Modelling System è un modello economico sviluppato dalla Commissione europea applicato per la prima volta nel 1999 per supportare i processi decisionali della PAC, basato su solide analisi quantitative.
[2] Le stime di aumento della popolazione mondiale riportate nel World Population Prospects 2019, Volume I pubblicato da Dipartimento di economia e affari sociali delle Nazioni Unite prevedono una popolazione di 8.548.000 persone nel 2030, 9.198.000 nel 2040, 9.735.000 nel 2050 e aumenti via via meno consistenti fino al 2100 a partire dal quale la curva di crescita dovrebbe stabilizzarsi (www.un.org/development/desa/pd/content/population-trends-0).
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