“Negli ultimi cinque anni la finanza verde è cresciuta in misura rilevante, rappresentando oggi una vera e propria tendenza di mercato. Secondo un rapporto della Global Sustainable Investment Alliance, nel 2018 almeno 30,7 trilioni di dollari (di cui 14 in Europa e 12 negli Stati Uniti) erano impiegati in investimenti sostenibili o verdi, in aumento del 34 per cento rispetto al 2016. Nel complesso questa massa di investimenti rappresentava un terzo degli attivi globali in gestione, e in alcune giurisdizioni contava ormai per più della metà.” (Banca d’Italia – Questioni di Economia e Finanza – Banche centrali, rischi climatici e finanza sostenibile. N. 608, marzo 2021)
Il panorama globale entro cui si collocano le attuali, nonché future, iniziative finanziarie è radicalmente mutato da quando la comunità internazionale, non solo europea, ha introdotto nelle proprie politiche i vincoli di sostenibilità ambientale avviati con l’Agenda 2030. Il contesto dello sviluppo sostenibile è stato circoscritto entro gli obiettivi di sviluppo sostenibile definiti dall’Agenda per poi essere ancor più rafforzato dall’Accordo di Parigi del 2016, che ha definito le prime modalità di combinazione dei movimenti finanziari con operazioni in grado di contribuire alla resilienza climatica e alla riduzione delle emissioni di gas climalteranti.
E così ha avuto inizio la prima vera rivoluzione per l’indirizzamento dei prodotti e degli strumenti finanziari: il contrasto radicale alla pratica del greenwashing. Per troppi anni parlare di “rispetto dell’ambiente” è stato un indiscusso vettore di marketing efficace. Talmente indiscusso da aver ingannato istituzioni politiche e portatori d’interessi fino a far ritenere a tutti che il mondo stesse davvero muovendosi con coscienza per affrontare, o comunque contenere, gli effetti avversi delle pratiche antropiche sul clima attuale e futuro.
Che cos’è il greenwasching? Si tratta dell’ecologismo di facciata ovvero la strategia di comunicazione di alcune imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale al fine di confondere l’l’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.
L’evidenza dei danni del greenwashing al reale contrasto all’in-sostenibilità ambientale delle attività economiche ha condotto all’adozione, in sede europea, del Regolamento (UE) 2019/2088 “relativo alla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari”, il quale introduceva la definizione di “investimento sostenibile” quale “investimento in un’attività economica che contribuisce a un obiettivo ambientale, misurato, ad esempio, mediante indicatori chiave di efficienza delle risorse […] a condizione che tali investimenti non arrechino un danno significativo a nessuno di tali obiettivi e che le imprese che beneficiano di tali investimenti rispettino prassi di buona governance […]”. Al Regolamento (UE) 2019/2088 si deve, dunque, anche la genesi del principio DNSH “do not significant harm”, divenuto rapidamente un caposaldo nella valutazione di ecosostenibilità delle operazioni finanziarie.
Indirizzare i fondi strutturali in coerenza con gli obiettivi di politica ambientale sostenibile, attrarre il cofinanziamento privato verso indirizzi coerenti con i pilastri europei e con gli obiettivi di sviluppo sostenibile, sono le principali finalità che hanno in ultimo condotto all’adozione del Regolamento (UE) 2020/852 del Parlamento Europeo e del Consiglio. Maggiormente noto con il suo più comune titolo: “Tassonomia della finanza sostenibile”, o Tassonomia UE.
La Tassonomia della finanza sostenibile ha il merito di aver reso uniformi e riconoscibili i criteri per la valutazione di ecosostenibilità di ogni generica attività economica, di fatto completando la definizione di “investimento sostenibile” e facilitando le decisioni sia dei mercati finanziari che degli investitori, al contempo consentendo che la pubblicità delle iniziative finanziarie sia basata sulla quantificazione reale del grado di ecosostenibilità delle stesse, senza più lasciare spazio alle mistificazioni del greenwashing.
Il Regolamento (UE) 2020/852, Art. 3 “Criteri di ecosostenibilità delle attività economiche”, definisce così i confini di valutazione:
“Al fine di stabilire il grado di ecosostenibilità di un investimento, un’attività economica è considerata ecosostenibile se:
- contribuisce in modo sostanziale al raggiungimento di uno o più degli obiettivi ambientali[1] […];
- non arreca un danno significativo a nessuno degli obiettivi ambientali […];
- è svolta nel rispetto delle garanzie minime di salvaguardia […];
- è conforme ai criteri di vaglio tecnico fissati dalla Commissione […];“
Le valutazioni in applicazione dell’art. 3 Reg. (UE) 2020/852 hanno dunque affiancato le esistenti metriche di sostenibilità – cosiddetti “score ESG”, pratica comune fra gli operatori finanziari – andando a costituire un paradigma ben più stringente e chiaro dei punteggi ESG.
All’analisi ESG si deve il merito di aver ricercato la costituzione di un sistema di riferimento per la facilitazione delle decisioni degli investitori, riconoscendo, di fatto, il valore degli aspetti ambientali (Environmental), sociali (Social), nonché di struttura e amministrazione societaria (Governance) delle imprese ai fini della quantificazione della sostenibilità delle iniziative finanziarie da esse intraprese.
Eppure, nonostante la complessa ponderazione degli score ESG e il loro diffuso impiego, sono state evidenziate al metodo diverse criticità, principalmente residenti nell’arbitrarietà dell’attribuzione dei punteggi e, pertanto, nell’affidabilità e sovrapponibilità delle valutazioni finali. Gli score ESG sono elaborati da società private, ciascuna operante secondo un proprio modello di calcolo e in assenza di riferimenti solidi per la parametrazione dei risultati ottenuti, il che lascia già intuire l’aleatorietà del risultato e la sua suscettibilità a seconda del punto di vista che si assume nel giudizio. L’investitore sarà di certo sempre più interessato a quanto potenzialmente d’impatto sulle finanze d’impresa, mentre gli stakeholders potrebbero rivolgere la loro attenzione agli effetti dell’iniziativa finanziaria sull’ambiente esterno e la società. Non si tratta di una divisione in buoni o cattivi, ma solo di un evidente, quanto ragionevole, limite del metodo, che non inficia il metodo in sé ma che deve essere noto per non incorrere in false conclusioni. In ultimo, di nuovo, nel greenwashing.
L’applicazione delle metodologie valutative introdotte con la Tassonomia per la finanza sostenibile ad oggi tuttavia appare un argomento caratterizzato da incertezze localizzate soprattutto nella suddivisione delle competenze fra i diversi soggetti attori dei mercati finanziari.
Il Reg. (UE) 2020/852 ha uniformato le metriche di sostenibilità di un generico investimento, demandando alla normativa secondaria da adottarsi in sede europea la specifica degli elementi attuativi delle predette valutazioni, ma anche i successivi atti delegati – fra cui rilevano il Regolamento Delegato (UE) 2021/2139[2] e la Comunicazione della Commissione C (2021) 1054[3] – non hanno chiarito le delimitazioni di responsabilità nella verifica delle condizioni di sostenibilità ambientale.
Ritorna, pertanto, un tema già noto agli operatori impegnati nella stesura dei Programmi per l’utilizzo dei fondi strutturali del settennato 2021-2027, ossia l’incerta definizione della governance da applicarsi per le verifiche ex-ante ed ex-post relative alle operazioni da finanziarsi con risorse europee.
Dunque, sebbene l’impatto dato dal Reg. (UE) 2020/852 alla definizione dei Programmi di utilizzo dei fondi europei sia stato dirompente e abbia determinato incertezze ancora non del tutto risolte, sul versante privato – ossia sulle aziende operanti nell’ambito delle attività regolamentate dalla Tassonomia UE – e più in generale in ambito di prodotti finanziari, le rigorose scadenze imposte in sede eurocomunitaria per l’avvio di un percorso di allineamento dei processi e dei prodotti alla Tassonomia UE, nonché per l’introduzione delle caratteristiche di sostenibilità delle operazioni entro le comunicazioni contrattuali e pre-contrattuali, hanno indotto una risposta maggiormente pronta da parte degli interessati.
Le società di gestione del risparmio, interessate dall’applicazione del Reg. (UE) 2019/2088 “relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari”, già dal 1 gennaio 2023 devono uniformarsi agli obblighi di trasparenza sui prodotti di investimento, specificando nel dettaglio le modalità di integrazione dei criteri ambientali – e sociali – nonché l’allineamento alle valutazioni della Tassonomia UE.
Sul fronte delle imprese, la recente pubblicazione in G.U. dell’Unione Europea della Direttiva (UE) 2022/2464, inerente la “rendicontazione societaria di sostenibilità”, investe circa 50.000 aziende europee dell’obbligo di rendicontare gli impatti delle proprie attività sull’ambiente, sui diritti umani e sugli standard sociali, in aderenza alle metodiche di verifica date dal Reg. (UE) 2020/852 e dagli atti delegati conseguenti.
La Direttiva (UE) 2022/2464 definisce tre scadenze temporali per adeguarsi all’obbligo di comunicazione: al 1 gennaio 2024 per le grandi imprese di interesse pubblico già soggette alla rendicontazione non finanziaria, al 1 gennaio 2025 per le grandi imprese attualmente esenti dall’obbligo di rendicontazione non finanziaria, al 1 gennaio 2026 per tutte le altre PMI e imprese.
Il tempo a disposizione potrebbe apparire ampio, eppure i nuovi paradigmi obbligano ad aggiornare al più presto i requisiti europei nelle programmazioni d’investimento, che spesso coinvolgono strutture finanziarie nazionali o sovranazionali (es. BEI, CDP) già oggi soggette ai criteri di selezione allineati alla Tassonomia.
Una nota positiva: i dati contenuti nella Platform on Sustainable Finance dell’Unione Europea dimostrano come che, ad oggi, circa il 60% degli investimenti delle aziende multi-utility del settore idrico in Italia sono eleggibili ai sensi della Tassonomia UE, e la quota si avvicina al 90% nel caso delle mono-utility.
La reattività dei privati, consapevoli che un buon posizionamento green codificato e certificato può condurre a facilitazioni nell’accesso al credito, costituisce quindi ad oggi il primo spunto di vera applicazione dei principi di sostenibilità ambientale e del DNSH.
Il tutto, in attesa che la P.A. possa figurare quale vero motore nazionale a sostegno e consolidamento di quel Green Deal altrimenti zoppo.
Gli obiettivi ambientali sono definiti nel medesimo Regolamento, come segue:
- la mitigazione dei cambiamenti climatici;
- l’adattamento ai cambiamenti climatici;
- l’uso sostenibile e la protezione delle acque e delle risorse marine;
- la transizione verso un’economia circolare;
- la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento;
- la protezione e il ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.
Il Regolamento Delegato (UE) 2020/2139 della Commissione del 4 giugno 2021 integra il regolamento (UE) 2020/852 fissando i criteri di vaglio tecnico che consentono di determinare a quali condizioni si possa considerare che un’attività economica contribuisce in modo sostanziale alla mitigazione dei cambiamenti climatici o all’adattamento ai cambiamenti climatici e se non arreca un danno significativo a nessun altro obiettivo ambientale.
La Comunicazione della Commissione C (2021) 1054 final approva gli Orientamenti tecnici sull’applicazione del principio “non arrecare un danno significativo” a norma del regolamento sul dispositivo per la ripresa e la resilienza.
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