In un’Europa che guarda alla transizione verde e digitale con crescente urgenza, le politiche per l’innovazione sono chiamate a fare un salto di qualità. È questo il cuore del lavoro realizzato da Francesco Molica, Francesco Cappellano, Teemu Makkonen e Robert Hassink per il Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea: un’analisi pionieristica su come le Strategie di Specializzazione Intelligente (S3) possano evolversi e integrarsi con l’approccio orientato alla missione (MOA), per dare forma a politiche regionali capaci di affrontare le grandi sfide sociali del nostro tempo.
Attraverso un accurato lavoro di ricerca su tre regioni europee – Catalogna, Paesi Bassi settentrionali e Bruxelles – il documento esplora i punti di contatto, le differenze e le tensioni tra due approcci apparentemente complementari, ma ancora distanti nella pratica.
Il risultato? Una lettura critica e concreta, che mostra come le politiche orientate alla trasformazione sistemica necessitino non solo di buone intenzioni, ma di strumenti flessibili, governance inclusiva e una direzionalità strategica ben definita
DALLE TEORIE ALLE STRATEGIE: QUANDO L’INNOVAZIONE DIVENTA MISSIONE
Negli ultimi anni, l’innovazione è uscita dai laboratori per entrare nelle piazze, nelle scuole, nelle aziende agricole e nelle città.
Ha smesso di essere un processo confinato alla crescita tecnologica o alla competitività industriale, per assumere un ruolo ben più ambizioso: guidare il cambiamento sociale, ambientale ed economico dei territori. A questo cambio di paradigma risponde l’approccio orientato alla missione – o Mission-Oriented Approach (MOA) – che propone di concepire le politiche pubbliche come strumenti direzionali, capaci di mobilitare competenze e risorse verso obiettivi comuni, chiaramente definiti e socialmente rilevanti. Non si tratta più solo di “innovare per crescere”, ma di innovare per risolvere problemi.
Come ridurre le emissioni di CO₂ nei sistemi di trasporto locale? Come garantire un’alimentazione sana e sostenibile nelle aree urbane? Come prevenire la dispersione scolastica nei quartieri più fragili?
Il MOA parte da domande come queste, e orienta le politiche regionali affinché rispondano con soluzioni concrete, coordinate e inclusive.
Un esempio emblematico è quello delle missioni europee di Horizon Europe, il programma quadro per la ricerca e l’innovazione dell’Unione Europea: cinque grandi sfide – tra cui l’adattamento al cambiamento climatico, la lotta al cancro, la tutela degli oceani – che non richiedono solo innovazione scientifica, ma una trasformazione radicale dei modelli economici, culturali e istituzionali.
Ma come si traduce tutto questo nei territori, nelle Regioni, nelle città? Come si passa dalla visione all’azione? La risposta non è scontata. Il rischio, spesso, è che il concetto di “missione” resti confinato nel linguaggio delle strategie, senza trasformarsi in pratiche operative. È il fenomeno ormai noto come mission-washing: evocare grandi sfide senza dotarsi di strumenti, alleanze e modalità concrete per affrontarle.
Per questo, lo studio si pone una domanda cruciale: è possibile integrare l’approccio mission-oriented all’interno delle Strategie di Specializzazione Intelligente (S3)? E se sì, a quali condizioni?
Le S3, nate per identificare e valorizzare i punti di forza di ciascun territorio attraverso un processo partecipativo di scoperta imprenditoriale (Entrepreneurial Discovery Process), hanno già introdotto elementi di direzionalità. Tuttavia, restano ancora ancorate a una logica prevalentemente economica e settoriale. Lo studio di Molica e colleghi prova a colmare questo divario, esplorando come le S3 possano evolversi in senso trasformativo e sociale, diventando vere piattaforme per affrontare le grandi sfide del nostro tempo.
TRE TERRITORI, UNA SFIDA COMUNE: CATALOGNA, BRUXELLES E PAESI BASSI SETTENTRIONALI
Che volto ha, oggi, una politica regionale orientata alla missione? Come si presenta, nei documenti strategici e nelle scelte operative, una regione che vuole usare l’innovazione per trasformare se stessa? A queste domande cerca di rispondere l’analisi comparativa condotta da Molica su tre territori europei molto diversi per struttura, storia e capacità istituzionale: la Catalogna, i Paesi Bassi settentrionali e la Regione di Bruxelles Capitale.
La scelta dei casi non è casuale. Come scrivono gli autori, «il criterio principale utilizzato per la selezione dei tre casi di studio è stato il loro esplicito ancoraggio a un paradigma di innovazione orientato alla missione, alla sfida o alla trasformazione». Non si tratta, dunque, di semplici esperimenti locali, ma di regioni che, nella nuova programmazione 2021–2027, hanno dichiaratamente integrato l’approccio mission-oriented all’interno delle loro Strategie di Specializzazione Intelligente.
Il confronto è reso ancor più interessante dalle profonde differenze socioeconomiche tra i territori. La Catalogna e Bruxelles sono due aree metropolitane ad alta intensità di conoscenza, con livelli elevati di PIL e una solida base di ricerca e innovazione. I Paesi Bassi settentrionali, invece, comprendono tre province – Drenthe, Friesland e Groningen – con un passato industriale e agricolo, oggi in fase di transizione, e un settore dell’innovazione ancora frammentato. Anche le strutture di governance variano sensibilmente: Bruxelles gode di autonomia istituzionale piena in quanto regione federale, mentre nei Paesi Bassi le competenze sono frammentate tra province e governo nazionale, e in Catalogna il decentramento è condizionato dal modello asimmetrico dello Stato spagnolo.
Nonostante le differenze, tutte e tre le S3 analizzate hanno compiuto un passo importante: hanno collocato le sfide sociali al centro della strategia. In Catalogna, ad esempio, la S3 si articola attorno alla trasformazione dei sistemi socio-tecnici, come quello alimentare, con l’obiettivo di costruire «un sistema alimentare sostenibile, giusto, equo e sano». Nei Paesi Bassi settentrionali, le sfide sono definite come “compiti di transizione” e direttamente correlate agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) dell’ONU e alle missioni di Horizon Europe, come la transizione energetica o la lotta al cambiamento climatico. A Bruxelles, infine, la S3 si distingue per l’accurata articolazione di azioni, strumenti e attori per ogni missione, come nel caso della trasformazione urbana sostenibile e inclusiva.
Un elemento comune emerge con chiarezza: la struttura delle nuove S3 non ruota più intorno alle aree di innovazione in senso tecnico o industriale, ma attorno a problemi da risolvere, che definiscono la direzione strategica dell’intervento. I domini tecnologici, laddove presenti, sono considerati funzionali e strumentali rispetto agli obiettivi sociali: «i domini di innovazione sono inquadrati […] come strumentali alle sfide sociali (SC), invece di essere trattati come obiettivi in sé». Questo rovesciamento di logica è il segnale più evidente del passaggio a una visione mission-oriented. Tuttavia, non tutto è già compiuto. In Catalogna, ad esempio, le missioni sono intenzionalmente formulate in modo vago, con lo scopo di lasciare aperta la co-definizione partecipata degli obiettivi nel tempo. Se da un lato questo approccio consente flessibilità e apertura all’adattamento, dall’altro rischia di indebolire la direzionalità strategica. Come osservano gli autori, «gli obiettivi specifici delle SC […] rimangono vaghi. Questa sembra una scelta strategica deliberata per lasciare maggiore flessibilità nella formazione graduale delle SC e dei loro obiettivi».
Bruxelles, al contrario, adotta un impianto più rigoroso: ogni missione è accompagnata da una narrazione dettagliata, una serie di azioni concrete e un’identificazione chiara dei soggetti coinvolti. È questo livello di granularità – obiettivi chiari, legati a risultati attesi e strumenti precisi – a rafforzare la direzionalità e la coerenza dell’intera strategia.
Anche nei Paesi Bassi settentrionali, la strategia si distingue per l’allineamento tra sfide locali e orizzonti globali, ma presenta ancora un livello di dettaglio operativo più debole. Le opportunità di sviluppo sono ben illustrate, e il legame con i bisogni del territorio è esplicitato, ma manca una piena articolazione in termini di roadmap e strumenti.
Questi tre esempi mostrano che il passaggio da una politica dell’innovazione orientata alla crescita a una orientata alla trasformazione è possibile. Ma anche che, per essere efficace, la missione va progettata, raccontata e implementata con rigore, ascolto e capacità adattiva.
GOVERNARE LA TRASFORMAZIONE: PARTECIPAZIONE, SPERIMENTAZIONE, COORDINAMENTO
La trasformazione sistemica non è un semplice aggiornamento tecnologico. È un cambiamento che tocca strutture, relazioni, linguaggi, ruoli e – soprattutto – modalità di governo. Governare l’innovazione, quando è orientata alle missioni sociali, significa saper orchestrare attori diversi, costruire visioni condivise, mantenere la direzionalità senza soffocare la sperimentazione. È su questo piano che molte Strategie di Specializzazione Intelligente rischiano di inciampare.
La governance, infatti, è il banco di prova più complesso di un approccio mission-oriented. Lo studio di Molica et al. mostra come, nei tre casi analizzati, la partecipazione degli attori sociali sia formalmente riconosciuta, ma spesso resti confinata a dichiarazioni di principio. Tutte le S3 esaminate si richiamano al modello della quadrupla elica – che include imprese, ricerca, pubblica amministrazione e società civile – ma la traduzione operativa di questo principio è ancora debole.
Nella S3 della Catalogna, per esempio, il processo di discovery è affidato a gruppi di lavoro che coinvolgono i quattro tipi di attori. Tuttavia, come segnalano gli autori, «mancano dettagli sulla loro composizione» e sulle modalità concrete di interazione tra gli stakeholder. Il rischio è che la partecipazione si riduca a un esercizio consultivo, senza reale incidenza sulle scelte strategiche.
Nei Paesi Bassi settentrionali, la governance assume un’impostazione più esplicitamente bottom-up: il comitato direttivo della strategia include rappresentanti del mondo imprenditoriale e accademico, con un ruolo attivo nella definizione delle priorità. Tuttavia, anche in questo caso, il coinvolgimento della società civile rimane sullo sfondo: le dinamiche decisionali si fondano principalmente su attori già inseriti nei circuiti dell’innovazione, con poche aperture verso cittadini, organizzazioni di base, comunità locali.
La Regione di Bruxelles Capitale si distingue invece per un modello più strutturato. La sua strategia prevede meccanismi espliciti di feedback, monitoraggio e adattamento, concepiti per mantenere la flessibilità e correggere il percorso in tempo reale. È una caratteristica cruciale per le politiche orientate alla missione, che devono saper evolvere sulla base dell’apprendimento continuo. Come osservano gli autori, «il modello di governance di Bruxelles incorpora meccanismi di aggiustamento e feedback in tempo reale, in linea con l’etica sperimentale che caratterizza le politiche orientate alla missione».
Tutte e tre le S3 riconoscono l’importanza della sperimentazione come dimensione fondamentale per affrontare l’incertezza delle transizioni. Ma a livello pratico, questo spazio è spesso ridotto dalle rigidità normative e dalla frammentazione istituzionale. Le politiche europee, in particolare quelle finanziate dalla coesione, mantengono un orientamento progettuale e lineare, che mal si adatta ai processi di innovazione iterativi e non predeterminabili. Come ricorda la letteratura citata nel documento, «la necessità di fissare obiettivi chiari nel MOA può scontrarsi con l’approccio “muddling-through” – l’idea che le politiche si evolvano attraverso tentativi ed errori».
Infine, il coordinamento interistituzionale resta un nodo critico. Le missioni, per loro natura, attraversano più settori e richiedono una governance integrata. Tuttavia, nella realtà, i diversi dipartimenti pubblici spesso continuano ad agire secondo logiche separate, e le responsabilità si distribuiscono in modo poco coerente. Una criticità comune, emersa anche dalle interviste raccolte nel rapporto, è la difficoltà di «conciliare direzionalità e sussidiarietà in contesti multigovernativi e multipartitici».
In sintesi, se la direzionalità strategica delle nuove S3 sta compiendo passi in avanti, la governance rimane il tallone d’Achille. Senza strutture capaci di garantire una reale co-progettazione con la società civile, di integrare i saperi diffusi e di adattarsi nel tempo, la promessa della missione rischia di restare incompiuta.
IL NODO DEGLI STRUMENTI: MISSIONI GRANDI, MEZZI PICCOLI
Non basta avere una visione trasformativa. Non basta neppure disegnare un sistema di governance inclusivo. Per realizzare una strategia mission-oriented occorre dotarsi di strumenti concreti, efficaci e coerenti con l’ambizione. È su questo punto – quello della strumentazione politica – che molte Strategie di Specializzazione Intelligente (S3) mostrano il loro limite più marcato.
Nel quadro teorico definito da Molica e colleghi, la dimensione strumentale è il terzo pilastro essenziale per valutare l’integrazione del Mission-Oriented Approach (MOA) nelle politiche regionali. Gli strumenti, infatti, non sono meri esecutori delle decisioni: sono elementi strutturanti della politica. Un cattivo disegno degli strumenti, ricordano gli autori, «può annullare anche le politiche per l’innovazione più ben congegnate»¹².
Eppure, nelle tre strategie analizzate – Catalogna, Paesi Bassi settentrionali e Bruxelles – l’approccio agli strumenti si rivela ancora debole. Solo la S3 di Bruxelles presenta una sezione dedicata alla descrizione degli strumenti politici, dove per ogni missione sono indicate le misure previste e i potenziali beneficiari. Nelle altre due strategie, gli strumenti sono trattati in modo generico e frammentato, senza una vera articolazione delle modalità operative, delle fonti di finanziamento o delle sinergie tra politiche.
Un primo problema è la scarsa varietà del policy mix. In quasi tutti i casi, il cuore della strategia resta legato ai finanziamenti tradizionali, in particolare al Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR). Tuttavia, come osserva Mazzucato, le missioni richiedono una combinazione flessibile di strumenti, inclusi quelli non finanziari – come le regulatory sandboxes, gli appalti pubblici innovativi o i prezzi di sfida – capaci di creare domanda pubblica per soluzioni sostenibili. Questo tipo di strumenti è del tutto assente, o appena accennato, nelle S3 esaminate.
Inoltre, le strategie tendono a mantenere una logica progettuale isolata, più che promuovere interventi sistemici. Come nota il documento, «il mix proposto si compone essenzialmente di soli meccanismi finanziari», spesso «di competenza dei programmi UE» e non delle autorità regionali. Questo vincolo evidenzia una dipendenza strutturale dai fondi di coesione, che, sebbene fondamentali, sono regolati da criteri rigidi, orientati all’efficienza dei costi, e quindi poco adatti alla sperimentazione, all’intersettorialità e alla tolleranza al rischio che caratterizzano le missioni.
In altre parole, le missioni sono grandi, ma i mezzi restano piccoli. C’è uno scollamento evidente tra l’ambizione trasformativa dei documenti strategici e la capacità concreta degli strumenti disponibili. Una discrepanza che gli stessi intervistati coinvolti nello studio sottolineano con forza: «C’è uno scollamento tra ciò che si vorrebbe ottenere e ciò che gli strumenti possono permettere di fare».
Un altro limite riguarda il coordinamento tra strumenti. Una vera strategia mission-oriented dovrebbe integrare in modo armonico strumenti diversi, provenienti da più settori e fonti. Ma questa capacità di integrazione è ancora largamente assente: le S3 non forniscono indicazioni operative su come verranno coordinate le varie misure. Anche la S3 di Bruxelles, pur più dettagliata delle altre, «manca di spiegazioni sui livelli di integrazione del mix politico».
In sintesi, lo studio evidenzia un paradosso: le regioni dichiarano obiettivi ambiziosi ma restano vincolate a strumenti rigidi e parziali, spesso progettati per una logica di spesa più che per una logica trasformativa. Senza una riforma degli strumenti – e senza un’apertura alla sperimentazione anche sul piano finanziario – le strategie rischiano di restare esercizi di retorica innovativa più che politiche di cambiamento.
CONCLUSIONI
Alla fine del percorso comparativo, emerge una verità tanto semplice quanto impegnativa: integrare l’approccio orientato alla missione nelle politiche regionali di innovazione è possibile, ma tutt’altro che scontato. Serve una ridefinizione profonda degli obiettivi, dei processi decisionali, delle modalità di attuazione. Servono strumenti nuovi e una cultura del cambiamento condivisa tra istituzioni, cittadini, imprese e mondo della ricerca. Soprattutto, serve il coraggio di passare dalle intenzioni ai fatti.
Il documento rappresenta una delle prime analisi sistematiche su questo tema. Il suo contributo è duplice: da un lato, mette a fuoco le condizioni necessarie per rendere le S3 uno strumento efficace di innovazione trasformativa; dall’altro, individua i colli di bottiglia – tecnici, istituzionali, culturali – che ancora ostacolano questo passaggio.
Una prima raccomandazione riguarda il quadro regolativo europeo. Gli autori osservano che, sebbene sempre più regioni stiano incorporando elementi mission-oriented nelle loro S3, le linee guida ufficiali della Commissione restano ancorate a una logica competitiva di ricerca e innovazione. Per questo propongono una revisione: «una loro revisione in futuro verso una direzione mission-led […] è fondamentale per portare chiarezza nell’operatività di questi approcci contro il rischio non trascurabile di mission-washing».
Un secondo punto critico è la centralità esclusiva dei fondi della politica di coesione, che limita la possibilità di adottare strumenti flessibili e innovativi. Per superare questo vincolo, gli autori suggeriscono che le S3 dovrebbero essere obbligate a indicare quali altre fonti di finanziamento saranno utilizzate in sinergia, e quali strumenti non finanziari saranno attivati a supporto delle missioni.
Un terzo nodo riguarda l’apprendimento istituzionale. Le regioni, infatti, non possono essere lasciate sole nell’affrontare la complessità di una strategia mission-oriented. È fondamentale creare spazi di confronto e di scambio tra pari, come reti di apprendimento, piattaforme di dialogo e meccanismi di trasferimento delle buone pratiche. Questo non solo accelera la maturazione delle strategie, ma contribuisce a costruire una cultura comune dell’innovazione trasformativa.
Infine, gli autori segnalano i limiti della propria analisi, con onestà e rigore: il focus è stato posto su tre regioni ad alta capacità istituzionale, e l’indagine si è basata sull’analisi documentale e su interviste qualitative. C’è dunque spazio – e necessità – per approfondire, replicare e ampliare la ricerca, in particolare coinvolgendo regioni meno sviluppate e con minore esperienza nella gestione di strategie di innovazione avanzate.
In conclusione, questo lavoro ci consegna un messaggio chiaro: la trasformazione non si dichiara, si costruisce. E si costruisce passo dopo passo, attraverso strategie che sanno tenere insieme ambizione e realismo, visione e concretezza. Solo così le politiche regionali potranno diventare motore di coesione e di cambiamento, al servizio delle comunità e del futuro dell’Europa.
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